Gabriele Sebastiani su “A gambe levate” di Serena Maffia
Entrare nei versi taglienti e catafratti di Serena Maffia equivale a tendere lo sguardo per un tempo
indefinito e in uno spazio illimitato verso qualcosa di irrisolto e in continua mutazione senza
riuscire a coglierne l’esatta direzione (positiva o negativa che sia); senza sapere quando poter
riadattare questo sguardo a una dimensione diversa da quella offerta dalla sua attraente e
affilatissima poesia. Anche stavolta, in A gambe levate – versi d’amore e di terrore, il tema
dell’amore con i suoi imprevedibili risvolti assume funzione preminente nell’intero tracciato poetico,
dove ventisei componimenti, tutti avvolti da un corporeo senso di distacco e di riavvicinamento, si
susseguono con toni a volte malinconici e altre battaglieri in un discordante avvicendarsi di perdite
e conquiste, quando sia l’amore che il terrore (di amare o di essere in amore ricambiati) procedono a
braccetto ma su binari paralleli, ancora inconsapevoli, e forse nemmeno desiderosi di saperlo, del
dolore sprigionato da questa separazione involontaria.
Leggendo i primi versi ci imbattiamo subito negli «amanti sorridenti», esistenze carnali che si
cercano in frammenti di corpo come bocca, braccia, mani, per ritrovarsi in uno spazio circoscritto e
immaginario fatto di lunghi silenzi e di ore d’attesa incuranti del freddo o del pasto saltato. Così si
arriva ad emozionarsi delle proprie somiglianze, di quei tratti affini e peculiari che accomunano due
corpi allo stato primitivo del conoscersi, dove acqua e fuoco ardono e si bagnano delle stesse
musiche abbandonate negli anni. Nel continuo rispecchiarsi fra inconscio e carnalità il viaggio che
ne consegue è un tragitto esperienziale lungo, faticoso e senza ritorno, in cui la corporeità delle
mani acquista la forza necessaria a cancellare tutto ciò che di rovinoso è possibile incontrare
durante la vita e qualsiasi forma di preoccupazione, anche la più futile o immotivata, viene allentata
dalla presa forte e generosa di chi sa trasmettere sicurezza e serenità. Il pane, il giorno, il caldo di
una mano diventano metafore di salvezza, punti di riferimento su cui tendere e che sembrano
distanti anni luce dall’essere raggiunti ma che in realtà rappresenterebbero la spontanea
conseguenza dell’essere e dell’esserci interamente quando troppo spesso sfuggono allo sguardo
disattento degli umani. Nel gioco di parole fra la parola Gambe, che dà il titolo alla quinta poesia
del libro, e A gambe levate, corrispondente al titolo della raccolta, Serena Maffia mette in luce
quell’ossimoro contatto/allontanamento creatosi con il passare del tempo, in cui ciò che prima
poteva rivelarsi simbolo di avvicinamento e unione fra due corpi, due entità, due atomi (gambe
avvolte in un groviglio di speranza), ora diventa invece motivo di fuga e di distanziamento, ultimo
atto di una storia che finisce all’improvviso e senza margini di recupero. Tutto questo non può che
causare un male interiore propagatosi in ogni elemento terrestre e materiale, con il fluire inesorabile della mancanza verso l’Altro che si diffonde partendo dal sole per arrivare al latte, dal letto alla luna, quest’ultima emblema della caduta annichilente in un vortice oscuro di scuri presentimenti.
Ma la poesia, che si nutre anche dei continui alti e bassi dell’amare, dà voce a nuove possibilità
del comprendersi, al ribaltamento emozionale dei contrasti in cui il desiderio di cercarsi un’altra
volta determina piste rinnovate da seguire, per di più se il pulsare dirompente del sangue nelle vene
è sintomo di un nuovo processo di innamoramento. Questo porta a un vero e proprio elogio del
fisico dell’uomo “dalle cosce forti/ dall’addome stretto, dalle braccia ferme”, come se descrivere i
tratti fisionomici più avvenenti fosse un modo per ribadire una volta per tutte la necessità di avere
accanto una figura solida e passionale che garantisca protezione e stabilità. Un po’ farfalla e un po’
bruco la persona amata sembra svanire nel cielo come fragile colore di un dipinto consumato dal
tempo e dai dolori, quando nemmeno la strategia della reclusione sarebbe la soluzione per un
difficile quanto vorticoso connubio fra incompresi amanti. Anche l’esatto momento successivo alla
totale oscurità prodotta da un’eclissi di luna può provocare spavento, incertezza, solitudine, ancor
più se ciò che si avverte intorno a questo lento ed eccezionale oscurarsi corrisponde a un senso di
isolamento e di vuoto amplificato dall’assenza perdurante di una figura protettiva. Nonostante ciò
non manca la volontà di sorridere «da eremita», di perdonare cosparsi di trifoglio e respirare
sembianze di amore anche laddove a dominare è un profumo umido di pioggia appena scesa. Perciò
sognare qualcosa o di fare qualcosa in compagnia dell’Altro diverso da Sé diventa l’estrema
speranza di riavvicinamento cui ancorarsi: «un posto incantato», il «mare di stelle», «la torre
spaccata» sono tutti presagi di un amore da riannodare «tra granchi e tra alghe». Di fronte al suono
martellante di una cicala la risposta è il silenzio, unica innocua arma a disposizione contro la forza
assordante di un’assenza, mentre si attende con fiducia il ritorno auspicato di una musica familiare
fatta di impercettibili sospiri. Ma il risultato che ne consegue è ancora questo:

*
SOLA
Come il gabbiano tra il vento
che sconquassa a volo lento
sento che cade ciò che ho dentro
è lo sgomento del sogno
di quello che avrei voluto fosse
il mondo con te, e a un tratto
sono sola a tremare, ad amare.
*
In quella che forse è a tutti gli effetti la poesia cardine del libro, posta non a caso nel cuore
pulsante della raccolta, si riconoscono molti dei tratti tipici dell’indole poetica di Serena Maffia: una cadenza metrica ondulante fra verso e verso; un gioco di suoni e assonanze che si riverbera
dall’inizio fino alla fine della poesia; le pause interne al verso che esprimono un sentimento di puro
rapimento e abbandono. Innanzitutto sono soltanto due le misure metriche adottate: l’ottonario (vv.1-2; v. 4; v. 6) e il decasillabo (v.3; v. 5; v. 7), entrambe funzionali a creare un placido ritmo di
ondulante candore, dove l’effetto pacato del rimbombo marino sonoro sembrerebbe quasi
traghettarci in un galleggiamento solitario nell’oceano dei sensi. Parole come “vento”, “lento”,
“sento”, “dentro”, “sgomento”, “quello” (rime perfette, quasi rime e assonanze tutte racchiuse in
uno spazio piccolissimo di versi), non fanno altro che guidarci a mano a mano verso un cammino
interiore iniziato attraverso una similitudine proveniente dal mondo animale (“Come il gabbiano tra
il vento/ che sconquassa a volo lento”) e conclusosi nel sentimento solitario dei gesti, quell’essere
rimasti soli a tremare e ad amare. Se a cadere è anche l’ultimo barlume di amore, ogni residuo di
sogno diventa deluso sgomento per quel viaggio del mondo abbandonato a sé stesso e lasciato in
sospeso e a metà fra ciò che ormai non può più essere raggiunto e ciò che un attimo prima poteva
ancora essere compiuto.
Di fronte a una separazione sempre più insanabile, le due parti acquistano ruoli, secondo l’unico
punto di vista offerto, contrapposti: c’è chi nel continuo desiderio di ricerca trova nel viaggio e nella
scoperta di nuove emozioni le risposte adatte ai diversi quesiti che la vita ogni giorno dispone; c’è
chi invece non può che rimanere ancorata alla terra e a qual senso di assenza e abbandono che
ostacola qualsiasi tentativo di ascesa e rinascita. E allora, una volta caduto anche il desiderio di
desiderare, cancellata l’angoscia dei demoni interiori, la riscoperta della bellezza nasce grazie alla
compagnia di chi sa colorare la vita di felicità o sa essere eterno ragazzo che inventa parole;
viceversa è l’assenza di uno sguardo o di una mano fraterna a trasformare in bruttezza ciò che
appena un attimo prima era pura bellezza. Ma basta pochissimo a sprofondare di nuovo nelle sabbie
mobili della malinconia, tanto che ogni forma rigenerante di vitalità lascia il posto al precipizio
interiore del non essere, nel momento in cui sopraggiunge l’opprimente paura di essere diventati
«fenice inconsapevole della morte». Così se gennaio è il mese che più si avvicina a rappresentare
questo stato di gelo interiore e di buio prolungato, con le ore del giorno in netto svantaggio rispetto
alle ore notturne, sarà l’intervento di un vento propizio a spazzare via questa stagione per
accoglierne un’altra, quella raggiante e vitale tipica di ogni primavera. Ciò nonostante bisogna
abituarsi a convivere con una «eterna incertezza», quell’intimo desiderio di bruciare ogni residuale
ricordo negativo per ripartire da zero, rinascere «tutti i soli» anche a costo di brillare di un
decadimento fisico inevitabile, quando per recuperare le forze fisiche e mentali basta fissare gli
occhi e il sorriso di una figlia. Guardare avanti per dimenticare il passato e costruire un nuovo
presente donando mani e gambe sembra essere l’ultimo suggerimento per riparare un rapporto incrinatosi nel tempo ma che volge con fiducia lo sguardo al futuro. Fiducia che cade
definitivamente nelle ultime tre poesie del libro, in cui l’utilizzo del periodo ipotetico o di un tempo
imperfetto che parla già di un passato lontano sancisce implicitamente la fine di qualsiasi
ricongiungimento. Questi due corpi assai simili sembrano quasi per destino rincorrersi all’infinito,
chiedersi scusa e uccidersi a gesti, facendo attenzione a non far morire del tutto quella travolgente
storia d’amore che li ha visti protagonisti fino alla fine, fino all’ultimo verso dirompente e
drammatico, quando morire d’amore significa una volta di più ribadire che non ci fu falsità,
illusione, raggiro, ma semplicemente una vera e intensa e unica storia d’amore.