Le donne libere ed espressioniste, romantiche o arrabbiate di un’artista ispirata e impennata
di Plinio Perilli
Eccole qui, rincuoranti e spasmodiche, irruente e fatalone, barricadere e seducenti (mai più, per fortuna, sedotte e abbandonate!), le donne libere ed espressioniste, romantiche o arrabbiate di un’artista ispirata e impennata, Serena Maffìa – classe ’79, romana visionaria e tonalista, ma di sangue e piglio calabri, eterna agguerrita ragazza fra versi e colori, tele pennelli spatola e anche pièces o quinte teatrali, agili taglienti prove di romanzo – che pone la fine dell’ipocrisia e l’odio per il perbenismo leccato, inamidato – ma anche la fine delle cento violenze subite, dentro e fuori di sé, sociali o ancestrali – a fulcro di tutta la sua poetica, insieme fantasiosa e coraggiosa, allertata soprattutto contro il contagio trasparente e perfido della prevaricazione, il coronavirus invincibile dell’insipienza…
Quanti decenni, quante generazioni sono occorse perché le care istanze, e i desideri, i sogni, le sacrosante rivendicazioni delle nuove donne, potessero giungere a tutto questo con una sana autocoscienza acquisita, un rispetto e una dignità consacrati. In pieno 1975 di accese e polemiche manifestazioni o lotte femministe, Marie Cardinal cercò invece di affrontare il problema femminile dal punto di vista del linguaggio; e nacque quel piccolo capolavoro che fu Le parole per dirlo: “Il mio inconscio stava già da tempo preparando il terreno, si manifestava alla coscienza, qua e là, attraverso le parole, immagini, sogni, ai quali non avevo fatto attenzione. Fino al giorno in cui, finalmente matura per accogliere la nuova verità, potevo percorrere in pochi secondi la strada che mi separava da essa.”…
Serena Maffìa ritrae, caricaturizza e insieme esalta queste sue nuove fanciulle con l’energia rappresentativa d’una grande trasgressione: che prima di tutto è psicologica (per fortuna); e solo dopo esplode o s’insinua, si spoglia figurativa… I quadri grandi sono 70×100; i piccoli, 40×50, sempre su tela. Tecniche miste dove il tratto lo segnano i pennarelli, e poi il colore, a guazza, viene battezzato prima dagli acquerelli, rimarcato di tempera, punteggiato d’acrilico (specie le ombre bianche). E come una bella donna, il suo “trucco” può ancora esigere, no, non rimmel ma pastelli ad olio…
Anche a scorrere i titoli, le sue eroine sono strepitosamente efficaci per un loro adorabile oltranzismo candido, una loro disperata – ma a tratti anche soffusa, indolente – voglia di esserci, contare, valere, dire la propria; e mai farsi gabbare, divorare, annichilire né dalle prediche sociologiche (liquide ma appiccicose!), né peggio dalla spocchia utilitaria delle fazioni politiche, o dal melenso e pietistico ron-ron mass-mediatico, tipo: avanti con un altro 8 marzo!, tanti auguri, poi tutto passa – speriamo anche il COVID 19.
Lei che da bambina conobbe, e a suo modo stupì Fellini, eterno ragazzaccio in cerca della favola oltre la ferocia della (Dolce) Vita, de La strada, e degli eterni, soffusi o scettici… Amarcord, lei lo sa bene quanto al maestro di Rimini (che per unico regno aveva lo Studio 5 di Cinecittà), sarebbero piaciute queste ragazze talentuose e orgogliose (“Emotiva”, “Bella”, “Accondiscendente”, “Liberata”), umbratili ma sempre ariose, smaccatamente in luce (“Emozionata”, “Tuttacuore”); ma a volte anche squinzie vanitose e complicate, borderline uscite fuori dalla testa e dalle asprezze proto-fumettistiche di un Grosz o di Otto Dix, ma risvegliate infine dai bacetti amicali e dalle artistiche carezze di Serena. Pittrice e poetessa, giocò a elogiarla Davide Rondoni, “un po’ barbara e gentilissima”; Claudio Damiani parla invece di “dionisismo femminile”, della bimba selvaggia come le antiche, arcaiche e arcane dèe lunari…
Insomma, come Serenella ci ammonisce con alcuni suoi vecchi versi (vecchi perché dei vent’anni!), altro che mela o non mela da offrire ad Adamo, Lei sradicherebbe l’albero intero: “cado / senza toccare mai in terra /ora che ho visto l’albero che sa / e scagiono Eva / senza essere Dio / ma la costola del suo io”…
Ma c’è il grande dono di una costante, in questa mostra agile ed essenziale: il cuore fulcro, un cuore rosso, muscolare, una specie di continuo, espressionistico – lo ripetiamo – tracciato cardiologico, ai fini beneamati dell’arte. Fini scanzonati, ma, con Serena, ardenti e gnomici insieme. Lei che, come l’amata Frida Kahlo, confessa sempre una freccia infilzata proprio al centro del petto, nel suo bel cuore impavido di cerva.
E che altrove effigia il cartoon cruciale, lo splatterone sanguinolento dell’ennesimo, atroce femminicidio. “Tarantino style”, peraltro – picasseggiando col rosso sul biancoenero, e un coltello che già da solo punisce, forse uccide la Gioia.
Il cuore dunque al centro del quadro, ingigantito di battiti e delle belle extrasistole della Poesia (sorta di aritmìa controllata? – o di felice tachicardìa?), segna così gli esiti più pungenti e risoluti. Voglia di cuore, oh, dov’è il cuore? E tutte le frasi che il fotoromanzo presta anche al romanzo – o viceversa – fra il paradosso e la dolce, dialogante tecnica del sublime: “Ti dono tutto il mio cuore”… diventerò anzi solo cuore, una grande testa/cuore, penserò il cuore, orgasmerò col cuore, mangerò, divorerò il tuo cuore (ricordiamoci la famosa novella del Boccaccio, dove lei, Isabetta, invece lo seppelliva, lo metteva in un vaso di basilico); poi lo digerirò e finirò, sic!, col defecarlo.
“Mostropoeta” era infatti una sua ribelle poesia già di 10 anni fa: “Fu il geranio, per primo, a destarmi / sospinta di verbene in pianto / sedetti in auge al cospetto della penna / e defecai.”
Oltranzista Serena – brava! Che sempre sa far valere i diritti e i doveri dell’arte, anche dei messaggi, dei confini che non esistono – o restano un mero cordone sanitario. Tutte donne, Donne in amore, avrebbe titolato Lawrence. Il loro amore però è lontano, isolato, recluso. Nella Peste di Camus, che infatti torna sempre attuale, lo struggimento più forte era proprio quello degli innamorati, degli animi e dei Cuori Amanti, anime in pena obbligate ad essere separate, condannate in fondo all’Arte e alla Poesia: cioè a un immobile ma dirompente purgatorio d’Amore.
Così sempre e ora le immagino, le giovani donne di Serena Maffìa, proiezioni vere (e s’intende, di Psiche), quadri come foto segnaletiche dalla “zona rossa”, che purtroppo nessun telegiornale avrebbe il coraggio di mettere quale prima notizia. Mentre forse è solo loro che dovremmo a questo punto cercare, recuperare, salvare (per vaccinarci?). Ecco a Codogno una ragazza “Felice (pensa se era triste)”; a Lodi un’altra “Intelligente (o faccia di cuore)”… Scendendo via via tutta la penisola, fino alla Magna Grecia della sua Calabria (“Romantica”, “Impegnata”, “Arrabbiata – o arrabbiata con carne”, “Innocente”, “Sincera”)…
“Il primo giorno fui bambina / le mie radici più lunghe dei capelli / gli occhi di bragia e di miele, profana / presi l’alveare dalle mani di Dio e ne succhiai. / Le api mi baciarono premurose / ballai la danza dell’amore”.